PAOLO BIELLI – FRANCO DI MATTEO (MAC MAC)
CRITICA - marzo 10, 2015 - 0 Comments
Nell’artefice, il Sublime, è il perfezionare la propria ricerca per evolverla e superarla, altrimenti il rischio è l’opaca ripetizione, o peggio, la routine, che è nemica della vera esperienza. Sulla scena da un ventennio, partito da un figurativo di volti estetizzanti tra Cocteau e Picabia, Paolo Bielli da almeno dieci anni propone una formula stilistica, che di volta in volta regolarmente sostituisce con una nuova. Un atteggiamento da maratoneta che non implica il dipingere, ma il contatto, l’emulsione con la realtà, o la strabica distonia con il reale; dai volti giganti vagamente post-modern dell’inizio, al coagulante e inebriante viaggio con la materia. Bielli la ama, ne manipola le potenzialità, ne argina i rivoli, ci gioca a braccio di ferro; nella lotta, l’artefice ‘doma’ i materiali armato di coltelli, resine e siliconi. Dopo il 2011, con la partecipazione alla biennale di Venezia ordinata da Vittorio Sgarbi, questa attitudine si è dilatata, si è espansa, e il suo flusso narrativo-visivo ha espresso il massimo di energia, concentrato in una dimensione espositiva minima. Ai primi del novecento, Umberto Boccioni ambì di mettere lo spettatore al centro del quadro; ebbene alla galleria Minima in via del Pellegrino, succede proprio questo: essendo minuscola, permettendo l’ingresso ad una persona alla volta, si diviene parte della ‘composizione’, si fa un giro nell’identikit dell’autore, si entra nel suo com-parto emotivo, se ne assaporano frenesie, se ne percepiscono fermenti e schivano schegge, sovrastati da un bidimensionale fondale ritagliato di corpi di boxer in lotta; un’ assemblaggio degno di un Lacoonte da fumetto. Sguardi, volti, frammenti di corpi: è però un unico lavoro, che proprio perché così articolato e vibrante, provoca subbugli, ma esprime anche armoniche certezze. Il ‘domatore’ ha imbrigliato le sue emozioni, le ha impaginate, anche per lui (forse), sono una scoperta, un cimento che obbliga alla necessità del riconoscere e del controllare, e ciò non può che succedere in sintonia con le apparenze del quotidiano, e in sintesi con l’album delle figurine dell’adolescenza, epoca beata, quando si fibrilla per riti e miti, scorazzando tra il borderline del maschile e del femminile. Miti senz’altro hollywoodiani, ma anche nostrani; ragazzi e ragazze di strada, icone filmiche sia iperboliche che ‘umane’ del mondo saturnino dei locali notturni e quello marziale dello scontro dei corpi nel ring della box. Così nel ‘diario’ di Paolo, si trovano feticci ludicamente autobiografici, allusioni ad alieni, frammenti da street art, ma anche il pantheon trash delle ‘cattive compagnie’ della stagione degli esasperati ed esasperanti look in noir, da cui emerge la poetessa Giulia/Rebecca, con la quale nella Roma degli anni ’80 Paolo profuse energie che diedero linfa agli ‘eroici’ fermenti, più o meno trasgressivi, di quegli anni. Era il tempo delle “Favolose nullità”, un periodo di enormi consapevolezze sul piano di un protagonismo vissuto sulla propria pelle, e narcisismi da culto mixati al trucidume gergale; pelle (famose na’ pelle!), non ha caso è stato il titolo di una sua performances alquanto hard, alla galleria Monserrato Arte. Paolo Bielli ha intitolato la mostra “L’ indiano e la fata”, recuperandolo da un suo disegno infantile; nella presentazione della mostra si dichiara che “Il cerchio si chiude”, si chiude un cerchio, solo per aprirne uno successivo.