PAOLO BIELLI – FULVIO ABBATE
CRITICA - maggio 20, 2009 - 0 Comments
1200 parole circa per spiegare la pittura di Paolo Bielli
Paolo Bielli dipinge quadri pieni di colori desertici che spiegano bene sia le stagioni interiori sia le emozioni, una specie di superficie astrale dove la pittura premia se stessa con alcuni timbri che assomigliano agli ultimi istanti di vita delle rose, o magari a un cielo pronto a precipitare nell’istantanea del tramonto. Paolo Bielli, a prima vista, assomiglia a un pittore informale, di quelli che una volta si mettevano lì a indagare il fondo delle cose, il loro nucleo (non per nulla venivano definiti “nucleari”) ed era il tempo delle conquiste spaziali e dei primi grandi microscopi, così quelli, fiduciosi nel progresso, ritenevano che anche la pittura dovesse fare la sua parte, magari scendendo nel battito delle molecole, dei batteri, dei bacilli meravigliosi, delle pupille, delle forme, dentro la verità delle cose. Sono trascorsi un po’ di anni da allora – lo Sputnik è andato nel frattempo ad arroccarsi in chissà quale cielo, i microscopi dormono ormai nelle teche dei laboratori, James Dean, Natalie Wood e perfino Sal Mineo sono intanto svaniti – eppure Paolo, certo d’essere nel giusto, affidandosi all’armonia di contrasto dei timbri, raccoglie quel certo modo di osservare le cose, trasformando ogni sua visione in pura poesia, in musica del colore. Grazie a gente di talento interiore come lui, è proprio il caso di dirlo, la pittura (cosiddetta) astratta ha ancora motivo d’essere, brilla.
Fulvio Abbate